SPUMANTITALIA 2023: quattro chiacchiere con Attilio Scienza


La mia esperienza a Spumantitalia 2023 voglio concluderla con il racconto dell’incontro con uno dei personaggi più iconici del mondo del vino, il professore Attilio Scienza. Lo conosco da anni e ho tanti dei suoi libri, alla kermesse per la prima volta ho il piacere di intervistarlo. Trovo sempre estremamente stimolante poter parlare con persone di tale caratura culturale. Le domande escono dalla mia bocca una dopo l’altra per il semplice e vorace gusto di apprendere. Autore di quattrocento pubblicazioni scientifiche per convegni e riviste internazionali e nazionali, oltre a una trentina di libri tecnici e culturali, Attilio Scienza è agronomo, produttore di vino, professore universitario, direttore generale dell’Istituto Agrario San Michele all’Adige (1985-91) e scrittore.

Il nostro colloquio verte essenzialmente sulle bollicine, dato il contesto in cui avviene, con qualche piccola divagazione sul tema.

Buongiorno professor Scienza, secondo lei gli spumanti italiani stanno cambiando: come e perché? Quali sono i fattori del cambiamento?       

Sono tanti, non si possono individuare in pochi tratti. Prima di tutto il cambiamento è da parte del consumatore. Chi fa cambiare qualcosa è la domanda. È il cliente che decide. Poi la produzione si organizza, cerca di assecondare le richieste del mercato. È chiaro che ci sono delle accelerazioni, nel senso che se il consumatore richiede un tipo di vino è anche perché qualcosa sta cambiando intorno a lui: il modo di vivere, il modo di condividere il vino a tavola, i giovani che hanno esigenze diverse dagli adulti e così via. Non ultimo, il cambiamento climatico incide sul tipo di consumo: il caldo fa preferire vini freschi, frizzanti, più allegri, un bianco piuttosto che un più austero rosso. È qui che si scatena la fantasia dei produttori italiani. Dalla Sicilia alle Dolomiti si fanno spumanti dappertutto, utilizzando i vitigni più strani e le tecniche enologiche più inconsuete. L’offerta enologica italiana è molto varia. Mentre i mercati francese e spagnolo sono molto più rigidi e tradizionalisti. In Champagne, nella Loira, in Catalogna si fanno spumanti e la tecnica è più o meno quella di una volta. In Italia, invece, cambiano le varietà e il modo di fare vino.

Oggi, tutti o quasi i produttori di vino hanno in produzione la propria bollicina: moda o reale potenzialità della vitivinicoltura italiana?

Anche qui ci sono due aspetti che si intersecano: la moda e le particolarità dell’ambiente pedoclimatico e varietale. Se nasce una moda, il produttore è portato a soddisfarla. La moda non è stile. La moda è qualcosa di effimero che sottostà agli umori delle persone e dei luoghi dove esiste. Lo stile, invece, persiste e dà un indirizzo al consumo. Per quanto concerne il secondo aspetto, si può fare un paragone con la Francia che produce Champagne in un territorio ben delineato con caratteristiche ambientali e varietali molto precise. Noi abbiamo la fortuna di avere un Paese molto lungo, immerso nel Mediterraneo, con una ricchezza straordinaria di suoli, di climi e di varietà. Tutta questa ricchezza è stata per lungo tempo misconosciuta addirittura ignorata. La gran parte dei vini del Sud erano destinati a essere vini da taglio per il Nord. La viticoltura era intensiva, appunto, perché bisognava correggere i vini del Nord o fare il vermouth o vini fermi, ma comunque di bassa qualità. Ora, invece, le cose sono cambiate: questi vini da tavola sono meno richiesti, si sono riscoperte in senso qualitativo le varietà prima utilizzate per fare quantità. Naturalmente, tutto ciò esige la ricerca da parte delle università, dei centri specializzati e delle aziende per conoscere il rapporto che c’è tra le varietà, l’ambiente e i sistemi di vinificazione. Occorre passare a un’enologia varietale: ogni varietà deve avere una sua interpretazione enologica che ancora non esiste. Una cosa è vinificare uno chardonnay in Trentino, un’altra è vinificare uno chardonnay in Sicilia. Oppure vinificare un pecorino in Abruzzo piuttosto che una passerina. Non si possono applicare le trafile di vinificazione standard per un vino bianco destinato alla spumantizzazione. Occorre interpretare quella varietà in quel luogo con quella produzione e farne poi un prodotto particolare. Questa è la cosa più difficile, ma è quella che permetterà il salto di qualità e di identità di tanti vini frizzanti e spumanti. Altrimenti non conviene farli. Il fenomeno Prosecco non è replicabile sia per questioni ambientali, quel territorio si presta magnificamente a produrre basi spumante, sia per la glera, vitigno che sembra creato per produrre vino con quelle caratteristiche. Come sempre in Italia se c’è un vino che vince, tutti vogliono imitarlo e si va verso un’enologia banalizzata perché perde di originalità. Si perde la caratteristica che ha l’Italia di fare tante cose molto diverse.

Prima ha parlato di cambiamento climatico dal punto di vista delle abitudini del consumatore, ma dal punto di vista enologico cosa sta cambiando? Si sente parlare sempre più spesso di Piwi…

In questo momento Piwi non ha ancora introdotto varietà adatte a fare spumanti. Piwi è un processo iniziato 20-25 anni fa quando il fenomeno spumantistico non era così vivace e forte, quindi concentrato nell’emulare un po’ le varietà che andavano di moda: il tocai per il Friuli, piuttosto che il sauvignon, il merlot, il cabernet. Se lei osserva in questo momento gran parte dei Piwi hanno come vitigno di vinifera una varietà internazionale. In Italia, il cambiamento climatico per quanto riguarda gli spumanti ha indicato due vie fondamentali. Una strada è quella della delocalizzazione: per fare uno spumante con metodo classico occorre andare in territori con un forte sbalzo termico, dove la maturazione è lenta, l’acidità è buona e il pH è basso. È un fenomeno da gestire bene soprattutto per i territori appenninici. Secondo me, il futuro del metodo classico non sarà al Nord ma nell’Appennino dell’Italia centrale. Penso alla Maiella e alla zona del Gran Sasso in Abruzzo. I suoli sono simili alle marne della Champagne come anche il clima che fa raggiungere i 1100-1200 gradi Winkler al giorno. A 600-900 metri sul livello del mare si possono fare ottimi spumanti. È un territorio che merita di essere valorizzato e che si sta spopolando. Sono sicuro che fare spumante potrebbe essere il motore per una ripresa, soprattutto attraverso i giovani. L’altra via è rappresentata dai tanti vitigni del Sud che hanno caratteristiche interessanti. Il Sud è meno soggetto al cambio climatico rispetto al Nord. Questo fa sì che i vitigni autoctoni meridionali possano essere utilizzati per fare spumanti. Un cambio culturale profondo con l’abbandono del modello unico e rigido di spumantizzare a favore di una visione più ampia.

Per concludere, il suo colpo d’occhio d’insieme.

Bisogna uscire da questi canoni tradizionali che correlano in modo preciso e dogmatico vitigni e territori. Noi italiani abbiamo sottovalutato un aspetto che, invece, hanno studiato molto gli australiani: il movimento delle masse d’aria. Siamo convinti che per fare basi spumante bisogni andare in quota. Non è sempre vero per la presenza dell’effetto dolina o effetto a gradiente invertito, per il quale i movimenti di masse d’aria dal mare o dalla montagna raffreddano molto di più di un vigneto in altitudine. Il mare è uno scambiatore termico straordinario. Occorre, quindi, rivalutare pendii e valli appenninici, nonché zone costiere meridionali e varietà ampelografiche più tardive con maggiore controllo dell’acidità, in passato ignorate perché davano vini troppo acidi. È tutto da studiare e spetta ai giovani andare avanti con entusiasmo e sempre nuove idee.

L’intervista è finita, saluto e ringrazio il professor Scienza. Gli do appuntamento alla prossima edizione di Spumantitalia.

 

Ad Meliora et Ad Maiora Semper.

 

Stefania Belcecchi